La legge Gelli si applica solo ai fatti accaduti successivamente alla sua pubblicazione.

Il principio generale di irretroattività della norma dettato dall’art. 11 delle c.d. preleggi, per quanto non previsto in costituzione e certamente derogabile dal legislatore, trova un limite invalicabile nel rispetto dei principi costituzionali di ragionevolezza e di tutela del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche nonché delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.

E ciò tanto più ove si considerino le conseguenze illogiche che deriverebbero alle situazioni pregresse e ancora non esaurite dall’adozione della diversa tesi ermeneutica, ad esempio in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, ove si rischierebbe di arrivare all’assurda conseguenza per cui il termine più breve quinquennale, tipico della responsabilità aquiliana, verrebbe applicato retroattivamente a rapporti per i quali, prima della legge G.B., la giurisprudenza applicava un termine di prescrizione decennale, tipico della responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c..

Tribunale Padova, Sent., 24-04-2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale di Padova

Il Giudice

dott. Guido Marzella

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa di primo grado iscritta al n. 10323/2016 R.G. e promossa

da

S.B.,

(C.F. (…))

– attore –

elettivamente domiciliato in C., via M. n. 18, con il patrocinio dell’avv. DALLA PALMA GUIDO,

contro

AZIENDA A.S.S.,

(C.F. (…))

– convenuta –

elettivamente domiciliata in P., G. M. n. 1, con il patrocinio dell’avv. LOCATELLI LORENZO,

R.A.S., (C.F. (…))

– convenuto –

Svolgimento del processo
S.B., premettendo:

– che in data 15.7.11, a seguito di investimento da parte di una vettura avvenuto il giorno precedente, si recava presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Piove di Sacco, ove, a fronte del riscontro di una lesione legamentosa, gli veniva applicata una valva gessata,

– che in forza di successivi accertamenti ortopedici era quindi eseguito un primo intervento chirurgico presso l’Ospedale di Piove di Sacco, nel corso del quale veniva posizionata una vite metallica al terzo distale della diafisi peroneale,

– che in data 14.6.12 era poi sottoposto presso il medesimo nosocomio ad un intervento di ricostruzione del legamento crociato anteriore, peraltro malamente eseguito da parte del dr. S., tanto che al medesimo conseguiva una grossolana tara flessoestensoria comportante la necessità di sottoporsi ad una nuova operazione ed il rischio di doversi addirittura procedere alla installazione di una artroprotesi al ginocchio,

– che oltre al danno fisico, morale ed esistenziale sopra evidenziato egli aveva subito anche un pregiudizio di carattere economico derivante:

– dalla mancata riscossione di un premio annuale di produzione,

– dagli esborsi sostenuti per far fronte a cure mediche e perizie ante causam,

– dalla necessità di farsi assistere a domicilio durante il periodo della convalescenza,

– che di siffatte circostanze dovevano rispondere a titolo di responsabilità contrattuale sia il sanitario sia la U., quale struttura da cui il medesimo dipendeva,

ha convenuto in giudizio le menzionate controparti chiedendone la condanna al pagamento del complessivo importo di Euro 51.442,00, ovvero di quello maggiore risultante dovuto all’esito della causa, oltre interessi di legge e svalutazione monetaria.

Costituitosi in giudizio, il dr. S. eccepiva che l’attore avrebbe dovuto evocare in giudizio la sola struttura sanitaria dal momento che la relativa obbligazione, di carattere contrattuale, gravava a carico del predetto ente, in favore del quale egli aveva prestato la propria contestata attività; osservava che, a mente di quanto disposto dalla legge Balduzzi, la sua responsabilità presentava semmai carattere extracontrattuale, con tutti i conseguenti oneri probatori a carico della controparte, la quale non aveva peraltro individuato in che cosa si sostanziasse il suo asserito inadempimento qualificato; ribadiva di aver correttamente determinato il tipo di intervento da compiere e di averlo quindi anche ritualmente eseguito; deduceva che la limitazione articolare nella fase post operatoria derivava semmai da una inadeguata condotta fisioterapica; contestava vi fosse la prova di una sporgenza della vite sistemata nell’articolazione tibiale o, comunque, di un suo errato posizionamento; sottolineava, inoltre, doversi tenere conto del fatto che egli si era limitato a cercare di limitare le conseguenze del sinistro stradale di cui l’attore era rimasto vittima; affermava infine di aver debitamente informato il paziente di ogni aspetto dell’intervento, ottenendo quindi l’acquisizione di un consenso debitamente informato; instava quindi per il rigetto delle avverse pretese ovvero, in subordine, per la riduzione dell’eventuale risarcimento nella misura ritenuta di stretta giustizia.

Costituitasi a sua volta in giudizio, la U. affermava che la condotta del sanitario risultava connotata da estrema diligenza, competenza e prudenza, in conformità agli

standard curativi dell’epoca; sottolineava la genericità degli addebiti rivolti al dr. S., i quali non consentivano di comprendere quali condotte costituissero la causa del lamentato evento dannoso; deduceva che quest’ultimo era semmai imputabile al grave traumatismo riportato dal paziente nel pregresso incidente stradale; contestava, di conseguenza, la sussistenza di una qualsivoglia responsabilità a carico del sanitario convenuto, tanto più in assenza dell’elemento soggettivo della colpa; riscontrava siccome incongrua la quantificazione dei danni ex adverso operata, soprattutto con riferimento all’invocato risarcimento del danno esistenziale, di per sé fonte di indebite duplicazioni risarcitorie; chiedeva conclusivamente il rigetto delle domande attoree o comunque, in subordine, il mantenimento della propria obbligazione in via strettamente proporzionale al grado accertato di responsabilità ed ai danni realmente subiti dall’attore.

Procedutosi alla trattazione del giudizio con il deposito di memorie autorizzate e datosi quindi corso alla fase istruttoria mediante l’assunzione delle prove orali e l’esperimento di CTU medico legale, la causa è stata infine trattenuta in decisione all’udienza dell’8 novembre 2018.

Motivi della decisione
La domanda attorea è fondata e merita quindi accoglimento come da dispositivo.

All’esito dell’esperimento della CTU si è invero potuto appurare:

– che in data 14.7.11 l’attore, a seguito di incidente stradale con la motocicletta, riportava un grave politrauma all’arto inferiore sinistro con interessamento articolare a livello del ginocchio e della caviglia nonché neurologico a carico dei tronchi terminali del nervo sciatico (SPE e SPI),

– che a risoluzione della fase acuta, si evidenziava da un lato il deficit parziale di funzione a carico della muscolatura innervata sia dallo SPE che dallo SPI, ancora presente e senza possibilità di recupero né spontaneo né a seguito di trattamento medico-chirurgico,

– che, d’altro lato, si confermava la presenza di una importante instabilità articolare a livello del ginocchio e della caviglia dell’arto inferiore sinistro, motivo per il quale il B. veniva sottoposto a due interventi di ricostruzione ligamentosa, rispettivamente alla caviglia sinistra in data 9.12.11 ed al ginocchio destro in data 15.6.12,

– che nel corso di quest’ultimo veniva praticata la ricostruzione del legamento crociato anteriore mediante utilizzo di un legamento artificiale, cosiddetto LARS (Ligament Advanced Reinforcement System),

– che il recupero post/operatorio non fu peraltro come atteso, in quanto, dopo un iniziale periodo di miglioramento, si evidenziò un quadro clinico caratterizzato da notevole difficoltà di movimento dell’articolazione e da una forte limitazione alla concessione del carico sull’arto operato, così come descritto dalla visita fisiatrica eseguita in data 2.10.12,

– che le indagini in seguito svolte hanno poi evidenziato come tali problemi siano riconducibili al fatto che la punta della vite cosiddetta “ad interferenza” infissa nel tunnel tibiale sporga in articolazione con elevata probabilità di entrare “in conflitto” con il tetto della gola, determinandone un’infiammazione cronica,

– che al fine di valutare l’esistenza di una eventuale responsabilità medica in proposito si deve allora ricordare come l’intervento ricostruttivo del legamento crociato abbia come scopo quello di posizionare un innesto di varia natura al posto del legamento originale, il quale può essere di natura autologa (prelevato dallo stesso soggetto) ovvero omologa (allotrapianto, prelevato da cadavere e opportunamente trattato) o sintetica, come nel caso in trattazione,

– che quale che sia l’innesto prescelto, esso andrà posizionato con orientamento obliquo sia sul piano frontale che su quello sagittale, in posizione quanto più vicina a quella del legamento originale,

– che si dovranno quindi praticati due tunnel ossei, rispettivamente nella tibia e nel femore, trascinando in essi l’innesto prescelto e fissandolo poi al femore mediante uno degli svariati sistemi reperibili sul mercato ed alla tibia per lo più mediante una vite cosiddetta “ad interferenza”, in quanto occupante pressoché a pieno il tunnel in maniera tale da aggrappare il neo-ligamento alle pareti ossee,

– che nell’ambito di tale procedimento si dimostra di fondamentale importanza l’orientamento dei due tunnel ossei in quanto esso determinerà:

– l’efficace tensionamento dell’innesto ai vari gradi di flesso-estensione dell’articolazione con conseguente ripercussione sul risultato clinico ovvero sulla tenuta del ginocchio in estensione e in flessione,

– la durata nel tempo dell’innesto stesso, in quanto un suo errato posizionamento potrebbe condurre ad una lesione precoce dello stesso,

– che altrettanto fondamentale si dimostra la scelta dei mezzi di fissazione dell’innesto, per il quale, a livello tibiale, il sistema privilegiato rimane da lungo tempo l’utilizzo di una vite ad interferenza, di materiale riassorbibile o altrimenti metallico,

– che alla luce di quanto esposto va allora affermato che più di un elemento ha di fatto concorso nel caso di specie al determinarsi dell’attuale limitazione funzionale del ginocchio sinistro dell’attore, dovendosi considerare:

– sia le condizioni di partenza del ginocchio stesso, così come riscontrabili alla luce della documentazione esaminata, la quale mostra l’esistenza di deficit motori pregressi all’arto inferiore sinistro coinvolgenti la regione distale ovvero le logge muscolari sia dei flessori che degli estensori del piede sinistro, tanto che il giorno dell’intervento il ginocchio appariva tumido e dolente e pertanto in condizioni in presenza delle quali più facilmente possono svilupparsi complicanze post/operatorie quali rigidità conseguenti al manifestarsi di una sindrome algo/distrofica che in rari casi può portare ad una artro/fibrosi ovvero allo sviluppo di lacinie fibrotiche endo/articolari con la conseguente perdita di movimento su base strutturale,

– sia le concrete modalità esecutive dell’intervento, colpevolmente conclusosi con la sporgenza, in articolazione, della punta della vite “riassorbibile” infissa nel tunnel tibiale, la quale nelle RMN e nella TAC successivamente compiute appare chiaramente sbordare in articolazione con verosimile conseguente impingement (conflitto) nei confronti della zona anatomica del ginocchio definita “tetto della gola”, tale da verosimilmente causare disturbi al periziato non solo a ginocchio esteso ma anche e soprattutto a ginocchio sotto carico,

– che si è pertanto in presenza di una ipotesi di colpa per imperizia, tale da causare un aggravamento della condizione pregressa già connotata da deficit neurologico periferico e stato infiammatorio,

– che i postumi permanenti da cui risultava affetto l’attore al momento dell’intervento vanno quantificati nella misura del 22-23%, aggravata sino al 30% in conseguenza della predetta malpractice medica, con danno differenziale stimabile in misura pari al 7-8%,

– che tale ultimo pregiudizio non ha comportato un danno alla capacità lavorativa specifica od attitudinale, viste la tipologia ed entità della menomazioni antecedenti,

– che il danno biologico temporaneo addebitabile all’errato trattamento sanitario va definito nella misura di gg. 10 al 75%, gg. 15 al 50% e gg. 15 al 25%,

– che il livello di sofferenza conseguito alla vicenda in esame va giudicato di entità medio lieve durante la fase di stabilizzazione dei postumi e di entità lieve a seguire nel breve e lungo periodo,

– che il cambio di mansione a cui si è dovuto sottoporre l’attore è invece esclusivamente conseguente alla menomazione legata al sinistro stradale in sé e non già agli effetti dell’intervento chirurgico,

– che, anche laddove si voglia dissentire dalle conclusioni così raggiunte, addebitando la condizione del B. ad una artrofibrosi sviluppatasi quale complicanza dell’intervento, va peraltro affermato che la medesima è conseguente, quantomeno concausalmente, all’irritazione causata dalla vite malamente impiantata, in quanto causa di uno stimolo irritativo persistente,

– che in tutte le immagini in laterale è infatti osservabile come il ginocchio del periziato non sia in grado di estendersi completamente a causa del conflitto conseguente alla vite mal impiantata,

– che il fatto che l’attore non si sia eventualmente attenuto al percorso di cure ipotizzato dal CTP di parte convenuta non esclude in alcun modo che i postumi riscontrati siano stati esclusivamente causati dall’erroneo inserimento della vite,

– che la scelta del periziato di non farsi rioperare ben collima d’altronde con la complessità della situazione presente.

Le quali considerazioni vengono da questo giudice fatte integralmente proprie in considerazione della correttezza del ragionamento logico così svolto e della congruità delle risposte rese dal consulente d’ufficio alle osservazioni svolte dai consulenti di parte.

Avendo in proposito la Suprema Corte ben chiarito che il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, non essendo quindi necessario che egli si soffermi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, seppur non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le conclusioni tratte, mentre le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive (Cass. 2.2.15 n. 1815 e 9.1.09 n. 282).

Ciò posto in linea di fatto, al fine di valutare la fondatezza della domanda attorea, si pone innanzi tutto il problema di determinare se, nel caso di specie, abbia o meno a trovare applicazione la L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. G.B.), il cui art. 7, terzo comma, dispone in maniera innovativa rispetto al passato prevedendo che il sanitario risponda del proprio operato in forza di responsabilità aquiliana.

In maniera innovativa, si è detto, essendo pacifico in giurisprudenza:

– per un verso, che in precedenza, pur quando il medico avesse operato all’interno di una struttura ospedaliera, la sua responsabilità presentava comunque natura contrattuale, concorrente con quella dell’ente giacché, pur risultando indebolita la matrice negoziale del rapporto con riguardo alla possibilità di scelta delle parti (in quanto da una parte il medico, quale dipendente della struttura, era tenuto a prestare la sua attività nei confronti del soggetto che avesse concluso un accordo con l’ente mentre dall’altra il paziente non risultava libero di scegliere il professionista a cui rivolgersi, essendo in ciò vincolato dall’indicazione fornita dalla struttura), la consensualità tipica dell’accordo negoziale doveva ritenersi surrogata dalla conclusione di un c.d. contratto sociale, che giustificava la nascita di vincoli contrattuali in tutto equivalenti a quelli generati da un contratto di prestazione d’opera (Cass. 2 dicembre 1998 n. 12233, 27 luglio 1998 n. 7336 e 19.4.06 n. 9085),

– per altro verso, che nemmeno l’entrata in vigore dell’art. 3, comma primo, del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8.11.12 n. 189, nel prevedere che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve” (fermo restando, in tali casi, “l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile”), avesse inteso esprimere alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, volendosi in realtà solo escludere, in tale ambito, l’irrilevanza della colpa lieve (Cass. 24.12.14 n. 27391 e 17.4.14 n. 8940).

Stante l’evidente novità dell’inquadramento della responsabilità del sanitario nell’ambito della responsabilità aquiliana ed attesa altresì l’inesistenza di una qualsiasi disposizione di carattere transitorio, si pone allora una questione di carattere intertemporale, dovendosi valutare se tale norma possa o meno trovare applicazione con riguardo a fattispecie antecedenti alla sua entrata in vigore.

In proposito, una volta ricordato che l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale si affermava la natura contrattuale della responsabilità del sanitario non presenta in alcun modo valenza normativa, va innanzi tutto escluso che il caso di specie possa essere trattato alla stregua di una ipotesi di successione di leggi nel tempo, assoggettando la fattispecie al disposto dell’art. 15 delle preleggi.

Di conseguenza, o si ritiene che la legge G.B., in quanto idonea ad esplicitare una diversa valutazione della fattispecie, abbia inteso disciplinare ex novo la materia – ed allora non potrà che affermarsi la sua operatività con riguardo ai soli fatti verificatisi dopo la sua entrata in vigore – o si giunge invece ad affermare che la medesima si è limitata a fornire una mera interpretazione autentica dell’art. 2043 cc con riferimento all’ambito della responsabilità medica, dal che discenderebbe invece l’applicabilità della medesima anche alle fattispecie pregresse.

Tale ultima tesi appare peraltro difficilmente sostenibile ove si consideri:

– per un verso che i lavori preparatori della legge e la stessa ratio legis risultano marcati da una assai forte carica innovativa, di rottura rispetto al precedente e consolidato orientamento giurisprudenziale, la quale assai poco si sposa con la pretesa natura meramente interpretativa del dettato normativo, e tanto più ove si consideri che siffatta tecnica legislativa contrasta con la tradizione del nostro ordinamento giuridico, nell’ambito del quale la qualificazione giuridica delle fattispecie concrete siccome aquiliana o contrattuale viene rimessa al giudice e/o alla scienza giuridica e non certo al legislatore, in accordo con la relazione di accompagnamento al codice civile del 1942, nella quale si decideva, all’art. 1321 c.c., di disciplinare e definire soltanto il contratto e non il negozio giuridico, proprio perché la qualificazione di esso all’interno della categoria dogmatica del negozio giuridico era compito più confacente alla giurisprudenza o alla dottrina,

– per altro verso che la norma di interpretazione autentica, pur connotata dai requisiti tipici dell’atto normativo costituiti dalla astrattezza e generalità, non innova l’ordinamento, limitandosi a precisare come vada interpretata una norma precedentemente emanata, ciò che nel caso in esame sembra appunto contraddetto da tutto quanto appena sopra rilevato.

Laddove, invece, la tesi contraria pare ben giustificabile facendo riferimento al principio generale di irretroattività della norma dettato dall’art. 11 delle c.d. preleggi che, per quanto non previsto in costituzione e certamente derogabile dal legislatore, trova un limite invalicabile nel rispetto dei principi costituzionali di ragionevolezza e di tutela del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche nonché delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.

E ciò tanto più ove si considerino le conseguenze illogiche che deriverebbero alle situazioni pregresse e ancora non esaurite dall’adozione della diversa tesi ermeneutica, ad esempio in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, ove si rischierebbe di arrivare all’assurda conseguenza per cui il termine più breve quinquennale, tipico della responsabilità aquiliana, verrebbe applicato retroattivamente a rapporti per i quali, prima della legge G.B., la giurisprudenza applicava un termine di prescrizione decennale, tipico della responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c..

Con la conseguenza che il danneggiato, il quale legittimamente confidava sulla prescrizione decennale, potrebbe vedere prescritto il proprio diritto al risarcimento del danno per effetto dell’applicazione retroattiva della lex posterior.

Ritenuto pertanto che al caso di specie non risulti applicabile la disposizione di cui all’art. 7 della legge G.B., si osserva allora come ben sussistano i presupposti di legge per dare accoglimento alle pretese attoree nei confronti di entrambe le parti convenute, sulla base dei principi che regolano la responsabilità contrattuale o da contatto sociale, in base ai quali si afferma:

– che nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno da attività medico chirurgica l’ospedale risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente, giacché l’accettazione di esso in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta in ogni caso la conclusione di un contratto (Cass. Sez. Un. 11.1.08 n. 577 e Cass. 26.2.13 n. 4792, 28.5.04 n. 10297, 21.7.03 n. 11316 e 11.3.02 n. 3492),

– che in effetti in tale ipotesi il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura o ente ospedaliero ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo, insorgono a carico della casa di cura o dell’ente, accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze, conseguendone che la responsabilità della casa di cura o dell’ente nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (Cass. 22.9.15 n. 18610, 3.2.12 n. 1620 e 14.6.07 n. 13953),

– che a sua volta la responsabilità del medico, pur laddove operante all’interno di una struttura ospedaliera, presenta comunque natura contrattuale a struttura complessa, concorrente con quella dell’ente, risultando dominata dalla presenza di un collegamento negoziale tra tre rapporti ex contractu costituiti da quello tra ente e medico, quello tra ente e paziente e quello tra paziente e medico, sicché, mentre le prestazioni pecuniarie sono regolate dai primi due rapporti e la predisposizione di un’adeguata struttura organizzativa compete principalmente all’ente, la prestazione professionale resta oggetto, a diverso titolo, di entrambi i rapporti facenti capo al paziente: quello instaurato con l’ente, in quanto quest’ultimo assicura la disponibilità di personale qualificato a cui rivolgersi, riservandosi di condizionare la scelta del medico da parte del paziente, e quello instaurato col medico nel momento in cui il paziente decide di avvalersi di quella disponibilità, in quanto è in questo preciso ambito in cui il rapporto di cura si sviluppa che la prestazione viene definita ed eseguita concretamente (Trib. Milano 19 febbraio 2001).

Derivandone quindi che in tali casi:

– compete all’attore:

– di provare l’esistenza del contratto o del contatto sociale,

– di allegare l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare, quale causa o concausa efficiente, il danno lamentato, rimanendo a carico del medico convenuto dimostrare che tale inadempimento non vi è stato (Cass. 9.10.12 n. 17143),

– di dimostrare la sussistenza del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno, di tal che, se all’esito del giudizio permanga incertezza sulla sussistenza

del nesso causale tra condotta del medico e danno, tale incertezza ricade sul paziente e non sul medico (Cass. 26.2.13 n. 4792),

– mentre incombe al professionista ed alla struttura di fornire la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile, pur dovendo altresì riconoscersi che tuttavia l’insuccesso o il parziale successo di un intervento di routine, o, comunque, con alte probabilità di esito favorevole, già implica di per sé la prova dell’anzidetto nesso di causalità, giacché tale nesso, in ambito civilistico, consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del più probabile che non (Cass. 23.10.18 n. 26700).

Precisandosi poi, con riferimento a tale ultimo aspetto:

– che in siffatto ambito non è necessaria la dimostrazione di un rapporto di consequenzialità necessaria tra la prima ed il secondo, ma è sufficiente la sussistenza di un rapporto di mera probabilità scientifica, conseguendone che il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile (Cass. 26.6.07 n. 14759),

– che infatti in tema di illecito civile il nesso di causalità deve essere fondato sul criterio della probabilità, e non già della mera possibilità, di verificazione dell’evento (Cass. 18.4.07 n. 9226),

– che al fine dell’accertamento di eventuali responsabilità risarcitorie a carico del medico, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti, dovendo invece escludersi la sussistenza del nesso eziologico quando le conclusioni cui sia giunto il consulente d’ufficio risultino svolte in termini di mera possibilità (Cass. 11.11.05 n. 22894),

Alla luce dei principi appena esposti e delle risultanze della CTU – non essendo contestato il fatto dell’avvenuto ricovero dell’attore presso le strutture dell’ente convenuto e risultando altresì provato per tabulas che le lesioni lamentate dal medesimo si siano verificate a causa dell’intervento operatorio cui egli è stato sottoposto – resta allora solamente da valutare se la condotta così posta in essere dai sanitari sia o meno censurabile alla stregua della letteratura medica di riferimento, dovendosi ricordare, con riguardo al contenuto della coscienziosità esigibile, come la Suprema Corte insegni:

– che il medico chirurgo, nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali inerenti alla propria attività professionale, è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia prevista dal primo comma dell’art. 1176 c.c., ma è quella specifica del debitore qualificato indicata dal secondo comma della medesima norma, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e di tutti gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica, ivi compreso l’obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche nella fase postoperatoria (Cass. 1.2.11 n. 2334 e 11.3.02 n. 3492);

– che la valutazione in merito alla violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività medica va condotta avuto riguardo alla natura della prestazione concretamente svolta, conseguendone che il professionista risponde anche per colpa lieve quando per omissione di diligenza ed inadeguata preparazione provochi un danno

nell’esecuzione di un intervento operatorio o di una terapia medica di normale difficoltà, mentre risponde solo se versa in colpa grave quante volte il caso affidatogli sia di particolare complessità o perché non ancora sperimentato o studiato a sufficienza, o perché non ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da eseguire (Cass. 24.4.01 n. 6038 e 12.8.95 n. 8845).

Sul punto, peraltro, i consulenti d’ufficio hanno avuto modo di pronunciarsi in maniera chiara, affermando vertersi in un caso che, seppur certamente grave, non presentava peraltro problematiche di complessità fuori dell’ordinario, di tal che hanno concluso muovendo al dr. S. quegli specifici addebiti già più sopra menzionati che ne fondano conclusivamente la responsabilità.

Riguardo alle quali circostanze va poi notato come – se anche non sia posto in dubbio che quest’ultimo abbia seguito nel caso di specie le linee guida conformi ed accreditate dall’esperienza medica, rispettando gli obblighi informativi verso il paziente e procedendo con l’utilizzo dei presidi diagnostici e terapeutici del tempo, previo approntamento delle prestazioni mediche più appropriate alla specificità del caso – ciò nonostante resta insuperabile il riscontro della circostanza è stata la materiale esecuzione dell’atto sanitario a risultare colpevolmente erronea, laddove poi il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile.

Il che appunto è stato affermato dai CTU medici in forza di ragionamento logico debitamente motivato che questo Giudice non ha motivo di porre in dubbio.

Ciò posto, spetta in primo luogo all’attore il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione della salute, rientrante fra i diritti inviolabili della persona, come tali garantiti dalla nostra Suprema Carta, i quali appaiono reintegrabili – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cc – anche quando non sussista un fatto/reato né ricorra alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, purché si accerti:

– che l’interesse leso, e non il pregiudizio sofferto, abbia rilevanza costituzionale, poiché altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 c.c., posto che qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile,

– che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, in quanto il dovere di solidarietà dettato dall’art. 2 Cost. impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza,

– che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità (Cass. Sez. Un. 11.11.08 n. 26972).

Danno questo che di per sé ricomprende:

– sia il pregiudizio da inabilità temporanea, e cioè l’incapacità di una persona ad attendere per un certo periodo alle proprie ordinarie occupazioni a causa di una malattia provocata dal fatto illecito altrui,

– sia la lesione dell’integrità psicofisica del soggetto e del bene della salute, comprensiva del turbamento dello stato d’animo conseguito al patimento della lesione fisica ed intrinseca alla struttura del fatto illecito del quale viene a rappresentare ineliminabile conseguenza immediata e quindi liquidabile pure in presenza di una semplice invalidità temporanea (Cass. 10 marzo 1992 n. 2840).

Esso peraltro, presentando natura unitaria, va liquidato in maniera omnicomprensiva, non costituendo le singole voci di esso elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza – tradizionalmente rappresentate dal danno biologico, dal danno estetico, dal danno esistenziale e dal danno alla vita di relazione – pregiudizi autonomamente risarcibili (Cass. 16.5.13 n. 11950), ma semmai ulteriori sottocategorie aventi valenza meramente descrittiva (Cass. ord. 13.7.11 n. 15414), delle quali deve essere evitata una errata duplicazione risarcitoria dal momento che la sofferenza soggettiva derivante da una lesione della salute costituisce necessariamente una componente di quest’ultima (Cass. Sez. Un. 11.11.08 n. 26972).

E dovendosi, più in particolare, ricordare, per ciò che attiene al danno esistenziale, di cui l’attore chiede la liquidazione come, alla luce di quanto appena osservato, il medesimo, in sé considerato, non possa ritenersi esistente, essendo invece risarcibili le lesioni di specifici valori costituzionalmente protetti, le quali però non presuppongono l’esistenza di un danno in re ipsa ma richiedono la prova di un pregiudizio costituito dalla privazione o diminuzione di un valore personale per effetto della condotta dell’agente, cui commisurare il risarcimento (Cass. 29 luglio 2004 n. 14488).

Tanto da doversi affermare che non ogni perturbamento della dimensione esistenziale od ogni indebolimento del diritto della persona sia tale da intaccarne lo spessore di inviolabilità, che va ovviamente rinvenuto nei soli casi in cui il fatto lesivo sia stato effettivamente di portata tale da alterare in maniera significativa la sfera di libera autodeterminazione dell’individuo.

Di tal che va escluso che possa formare oggetto di tutela una generica categoria di danno esistenziale o di danno alla vita di relazione, nella quale far confluire fattispecie non previste dalla norma e non ricavabili dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., dovendosi ritenere che la liquidazione del danno non patrimoniale sia di per sé idonea ad includere ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito – ivi comprese le difficoltà di mantenere integro il pregresso stile di vita ovvero di reintegrarsi appieno nei rapporti sociali per gli effetti di tale lesione – salva la facoltà del Giudice di tenere eventualmente conto di tali fattori ai fini di una valutazione in concreto della misura di tale danno e di una sua personalizzazione alle peculiarità del caso specifico (Cass. 18 febbraio 2010 n. 3906).

Tenuto allora conto degli esiti della CTU, già più sopra riferiti – e riscontrata l’inapplicabilità al caso di specie delle tabelle menzionate negli artt. 138 e 139 del C.d.A. di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, richiamate in ambito di responsabilità sanitaria dal quarto comma dell’art. 7 della L. 8 marzo 2017, n. 24, dal momento che le medesime si riferiscono ai soli danni che presentano un’incidenza massima del 9% – deve quindi procedersi alla relativa quantificazione facendo applicazione delle “Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psico-fisica” predisposte dal Tribunale di Milano, le quali, secondo la Suprema Corte, costituiscono valido e necessario criterio di riferimento ai fini della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., là dove la fattispecie concreta non presenti circostanze tali da richiedere la relativa variazione in aumento, tanto da affermare che risulti incongrua la motivazione della sentenza di merito che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una liquidazione che risulti sproporzionata rispetto a quella cui si giungerebbe mediante l’applicazione dei parametri indicati dalle predette tabelle (Cass. 30.6.11 n. 14402).

Derivandone quindi che l’attore, il quale al momento del fatto lesivo aveva 37 anni, ha patito un pregiudizio fisico stimabile in complessivi Euro 65.525,50, di cui Euro 2.062,50 a titolo di risarcimento del danno biologico temporaneo (tenendosi conto di una diaria giornaliera di Euro 110,00 in considerazione della natura medio lieve delle sofferenze patite) ed Euro 63.463,00 a titolo di risarcimento del danno biologico permanente e di quello morale, già conglobato nelle predette tabelle, calcolati operando una media fra il dato del 22% e quello del 23% e rapportando siffatto dato a quanto liquidabile in forza della complessiva compromissione dell’integrità personale pari al 30% (Euro 152.617,00 – Euro 89.154,00).

Bene essendo stato precisato dalla Suprema Corte che in tema di responsabilità medica, allorché un paziente, già affetto da una situazione di compromissione dell’integrità fisica, sia sottoposto ad un intervento che, per la sua cattiva esecuzione, determini un esito di compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata anche in caso di ottimale esecuzione dell’intervento stesso, ai fini della liquidazione del danno con il sistema tabellare, deve assumersi come percentuale di invalidità quella effettivamente risultante, alla quale va sottratto quanto monetariamente indicato in tabella per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile, e perciò non riconducibile alla responsabilità del sanitario (Cass. 19.3.17 n. 6341 e 19.3.14 n. 6341).

E ciò poiché – avendo la condotta sanitaria imperita cagionato il danno-evento rappresentato non dalla perdita dell’integrità fisica dallo 0 al 22-23% bensì quella dal 22-23% al 30% – l’equivalente da considerare è, dunque, quello pari a tale ultima percentuale, ma non già nella sua integrità bensì solo in relazione a quella che, secondo le tabelle applicate, rappresenta la differenza fra il valore maggiore e quello minore, del quale ultimo, infatti, il sanitario non deve rispondere poiché ineliminabile.

Mentre non si ritiene di dover ulteriormente personalizzare la cifra in esame, essendo stato ben chiarito dai giudici di legittimità che il grado di invalidità permanente espresso da un baréme medico legale esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli aspetti della vita quotidiana della vittima, restando preclusa la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento a titolo di personalizzazione del danno, salvo che l’interessato alleghi e dimostri circostanze specifiche ed eccezionali tali da rendere il pregiudizio in concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti da lesioni dello stesso genere sofferte da persone della stessa età (Cass. 7.11.14 n. 23778).

Oltre a ciò deve poi procedersi alla quantificazione del danno patrimoniale effettivamente risarcibile, riconoscendosi innanzi tutto quanto sostenuto e documentato a titolo di spese mediche per terapie riabilitative e varie, pari ad Euro 46,15 (doc. 48), ritenute congrue dal CTU nell’ambito del proprio elaborato peritale, da attualizzare ad oggi in Euro 47,72 tenuto conto del fatto che in tema di valutazione e liquidazione del danno da fatto illecito, qualora il danneggiato abbia provveduto a proprie spese ad eliminare o ridurre le conseguenze pregiudizievoli derivate dal fatto medesimo, l’obbligazione risarcitoria del responsabile non perde la natura di debito di valore, in quanto diretta a reintegrare il patrimonio di detto danneggiato nella sua originaria consistenza, e, pertanto, deve essere quantificata, pure in grado d’appello ed anche d’ufficio, adeguando l’ammontare degli indicati esborsi al mutato potere d’acquisto della moneta con riferimento alla data dei singoli esborsi (Cass. 16.2.01 n. n. 2335 e 23.4.98 n. 4185).

È inoltre dovuto il rimborso delle spese sostenute per la visita medico legale esperita ante causam e documentata da idonee fatture (doc. nn. 49 e 50), trattandosi di prestazione resasi necessaria al fine di far valere le proprie ragioni nel successivo giudizio di merito, relativamente alla quale i giudici di legittimità hanno affermato trattarsi di conseguenza normale e regolare del fatto illecito della quale il giudice del merito deve tenere conto in sede di liquidazione del danno (Cass. 22.6.82 n. 3803).

Valutazione questa condivisa dallo scrivente nel presupposto che siffatta attività risulti in effetti necessaria a consentire al soggetto danneggiato la formulazione di una richiesta risarcitoria oggettivamente aderente alle conseguenze lesive in concreto patite.

Di tal che appare arduo affermare che siffatta attività stragiudiziale risulti in linea di massima ridondante o superflua – salvo il caso limite rappresentato da una perizia le cui conclusioni si presentassero talmente infondate da aver costituito motivo di ostacolo, anziché di ausilio, alla definizione della controversia – e solo potendosi semmai disquisire in merito all’eccessività della relativa spesa ove la medesima non risulti commisurata ai valori medi praticati sul mercato.

Dovendo quindi riconoscersi in favore del danneggiato le spese di CTP, sostenute per un ammontare di Euro 1.220,00, attualizzate ad oggi in Euro 1.248,31, le quali appaiono congrue rispetto ai prezzi di mercato.

Da ultimo va infine riconosciuto il rimborso delle spese di assistenza domiciliare, la prova della cui esistenza è stata fornita dal teste B. – il quale ha riferito che ebbe modo di occuparsi dell’attore a seguito dell’intervento eseguito al ginocchio presso l’Ospedale di Piove di Sacco, provvedendo ad assisterlo giornalmente presso il suo domicilio per circa due mesi complessivi nel corso dell’estate di quell’anno percependo un compenso del complessivo ammontare di circa Euro 2.400,00 – seppur nei limiti della riscontrata invalidità temporanea.

Di tal che, ipotizzando un esborso giornaliero di Euro 64,00 (Euro 8,00 orarie), si ritiene di poter liquidare un costo complessivo di Euro 1.360,00 (Euro 64 x 10 gg. = Euro 640) + (Euro 32 x 15 gg. = Euro 480) + (Euro 16 x 15 gg. = Euro 240), attualizzato ad oggi in Euro 1.410,32.

Mentre nulla spetta a titolo di danno da lucro cessante derivante dalla menomazione della capacità lavorativa, il quale – dovendo essere determinato tenendo conto di quanto l’interessato avrebbe conseguito se non si fosse verificato il fatto illecito, sulla base di una ragionevole e fondata prevedibilità, utilizzando dati il più possibile reali e non meramente ipotetici, tali da comprovare che la lesione subita abbia avuto un’incidenza immediata e diretta sulla produzione del reddito (Cass. 12.2.13 n. 3290 e 27.4.10 n. 10074) – necessita di una prova stringente, nel caso di specie non fornita.

E tanto più ove si consideri come la Suprema Corte abbia ben precisato che lo stesso accertamento dell’esistenza di postumi permanenti incidenti sulla capacità lavorativa specifica non comporta di per sé l’automatico obbligo di risarcimento del danno patrimoniale da parte del danneggiante, dovendo comunque il soggetto leso dimostrare, in concreto, lo svolgimento di un’attività produttiva di reddito e la diminuzione o il mancato conseguimento di questo in conseguenza del fatto dannoso (Cass. 3.7.14 n. 15238 e 12.2.13 n. 3290).

Sicché conclusivamente, tenuto conto del danno non patrimoniale già liquidato, si determina in Euro 68.231,85 l’ammontare del pregiudizio patito dall’attore e che i convenuti risultano tenuti a pagare in solido in favore del medesimo.

Sulla somma così determinata tenendo già conto della perdita del potere d’acquisto della moneta, anche in considerazione del fatto che sono stati utilizzati i valori indicati nelle più recenti tabelle pubblicate, spettano poi al B. gli interessi di legge a far data dal deposito della presente sentenza e sino al saldo effettivo.

I medesimi non sono invece dovuti per il periodo precedente poiché essi vanno unicamente liquidati qualora – dal confronto comparativo in unità di pezzi monetari tra la somma rivalutata riconosciuta al creditore al momento della liquidazione e quella di cui egli disporrebbe in ipotesi di un tempestivo soddisfo e avendo potuto utilizzare l’importo allora dovutogli secondo le forme considerate ordinarie nella comune esperienza ovvero in impieghi più remunerativi – la seconda ipotetica somma sia maggiore della prima (Cass. 12.2.10 n. 3355 e 24.10.07 n. 22347), ciò che nella fattispecie non è stato provato.

Quanto infine alle spese di giudizio, liquidate come da dispositivo sulla base dei parametri dettati dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, le stesse gravano in via solidale sui convenuti in forza del principio della soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c., ivi comprese le competenze di CTU e di CTP, liquidate queste ultime nell’importo ritenuto congruo di Euro 2.440,00.

Dovendo, in proposito, sottolinearsi che loro determinazione viene compiuta in adesione alla nota spese attorea per complessivi Euro 5.802,00 sulla base del seguente prospetto:

Fasi processuali Liquidazione Fase di studio Euro 875,00 Fase introduttiva Euro 740,00 Fase istruttoria Euro 1.600,00 Fase decisionale Euro 1.620,00 Aumento 20% per pluralità di parti Euro 967,00

P.Q.M.
Il Giudice, pronunciando in maniera definitiva sulla presente controversia, disattesa ogni diversa istanza:

1) condanna R.A.S. e la U. di Padova, in solido fra loro, a pagare in favore di S.B., a titolo di risarcimento danni, la somma già rivalutata di Euro 68.231,85, oltre agli interessi di legge dal deposito della presente sentenza e sino all’effettivo saldo;

2) condanna i convenuti, in solido fra loro, a rifondere in favore dell’attore le spese processuali che liquida in Euro 5.802,00 per competenze ed in Euro 567,58 per anticipazioni, oltre al rimborso delle spese generali, dell’IVA e degli accessori di legge;

3) pone a carico solidale dei convenuti le competenze di CTU e quelle di CTP, liquidando queste ultime in Euro 2.440,00.

Così deciso in Padova, il 23 aprile 2019.

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2019.