Spunti di riflessione dalla relazione Covip 2020

La presentazione della relazione 2019 Covip avvenuta la scorsa settimana è un’occasione propizia per una valutazione sul grado di sviluppo della previdenza complementare nel nostro paese, questione che, tra l’altro, si inserisce nel dibattito attuale su come fronteggiare il calo di reddito delle famiglie a causa della pandemia. Teniamo, infatti, presente che il settore, esposto nel corso di questo primo semestre agli effetti dell’emergenza covid-19, potrebbe fornire livelli di prestazione significativi in grado di contribuire ad alleviare le difficoltà economiche degli aderenti e dei loro familiari. Pensati come strumento di sostegno al reddito durante la vecchiaia, i fondi pensione presentano quelle caratteristiche di flessibilità nell’erogazione delle prestazioni tali da rivelarsi una soluzione integrativa rispetto agli interventi tipici del welfare pubblico, di cui la proroga della CIG costituisce un chiaro esempio, per quelle situazioni di interruzione o sospensione dell’attività lavorativa. Affinché questo obiettivo sia tradotto in fatti concreti, è auspicabile da questo punto di vista che le strutture amministrative dei fondi pensioni possano erogare le prestazioni nei tempi più ristretti rispetto a quelli consentiti dalla norme per riscatti e anticipazioni.

Soffermandoci sulle considerazioni del presidente Padula nel suo intervento, non sono mancati i motivi di soddisfazione per un settore la cui rilevanza nell’economia italiana si va accrescendo costantemente: le risorse gestite dai fondi sono passate nell’arco di un anno dai 167 miliardi del 2018 alla cifra record di 185,1 miliardi del 2019, un valore pari ad oltre il triplo delle risorse che i fondi pensione gestivano con l’avvio della riforma Maroni nel 2007; a questo si aggiunge la crescita degli aderenti alle forme di previdenza complementare giunti nel 2018 alla cifra di oltre 9.117 mila con un incremento del 4,38% sull’anno precedente; anche se si può percepire un indebolimento del trend, la cui dinamica è in leggero e costante calo nel confronto tra gli incrementi registrati negli ultimi cinque anni, ma non va dimenticato che il numero delle adesioni è raddoppiato rispetto all’anno di entrata in vigore della riforma Maroni nel 2007 e che il trend si deve misurare con una platea dei possibile aderenti che si va progressivamente restringendo. Colpisce anche il rilievo statistico che mostra un importo medio versato da ciascun aderente significativo ( 2.750 euro), un dato sostanzialmente in linea con quelli dell’ultimo triennio anche se connotato da forte disomogeneità per settore, per strumento e per età.

Scomponendo il numero complessivo delle adesioni rispetto agli strumenti utilizzati, i dati mostrano nel confronto temporale un’affermazione sempre più consistente dei PIP (piani pensionistici individuali) che rappresentano la scelta prevalente, compiuta da oltre 3.419 mila aderenti, seguita a breve distanza dai fondi negoziali che annoverano 3,1 milioni di iscritti. Sebbene il tasso di crescita nell’ultimo anno dei PIP sia stato leggermente più basso rispetto a quello degli altri fondi (fondi chiusi, fondi aperti), non si può non sottolineare il duraturo successo di queste forme. Se volessimo essere critici, potremmo mettere in risalto che gli aderenti a queste forme devono sopportare costi complessivi più elevati rispetto a quelli dei fondi aperti/chiusi con la conseguente riduzione della prestazione pensionistica riconosciuta al termine del periodo di adesione. A questo fondato rilievo, tuttavia si potrebbe obiettare che la rete di intermediari che sollecitano le adesioni proponendo i PIP forniscono anche quel supporto in termini di assistenza e ascolto che nella fase successiva a quella di adesione diventa preziosa considerata la scarsa familiarità del pubblico per queste forme di investimento.

Per quel che riguarda i rendimenti, i fondi pensione hanno approfittato, nel corso del 2019, del positivo andamento dei mercati finanziari, in particolare del comparto azionario, registrando risultati al netto degli oneri di gestione e della fiscalità che hanno spaziato dal 7,2% dei fondi negoziali al 12,2% dei PIP. Il confronto con la rivalutazione del TFR che è stata pari al 1,5% rimarca da un lato le potenzialità del ricorso ai mercati finanziari nell’investimento previdenziale, mentre sottolinea la scarsa appetibilità del TFR che soffre la cronica riduzione del tasso di inflazione nell’area euro.

Nel quadro complessivamente lusinghiero che abbiamo tratteggiato, fanno da contraltare alcuni criticità che, pur note agli osservatori ed oggetto di diverse e approfondite analisi, rappresentano problematiche che, perdurando da diverso tempo, non devono essere sottovalutate nelle loro implicazioni di lungo termine

In primis, l’abbandono della contribuzione rilevata in un numero rilevante di posizioni previdenziale. Nel 2018 abbiamo avuto 2.189.000 posizioni non alimentate, un dato in forte crescita rispetto alle 520.000 posizioni non alimentate del 2008. Al numero elevato contribuisce senz’altro la presenza di una pluralità di fondi pensioni riconducibili alla stessa persona che potrebbe decidere di privilegiare il finanziamento di un solo fondo, ma non si può escludere che l’eccessiva flessibilità nella contribuzione ai fondi pensione, con l’eccezione del TFR maturando, abbia indotto un numero crescente di aderenti a ridurre il proprio impegno contributivo. In tal senso, è probabile che la crisi pandemica attuale accentui ulteriormente una dinamica che è già di per se preoccupante rispetto al rafforzamento dell’obiettivo previdenziale.

L’altra nota stonata riguarda le generazioni più giovani. Rilevare che nei soggetti under 35 il tasso di partecipazione sia pari al 21,2 per cento, un dato inferiore di circa un terzo a quella delle fasce di età centrali (35-54 anni) e che la contribuzione sia inferiore di circa la metà rende il tema dell’adesione ai fondi pensione delle generazioni più giovani di stringente attualità considerando che le aspettative riguardo alla previdenza pubblica sono orientate verso livelli progressivamente più bassi. E’ innegabile che il calo dei redditi disponibili sia alla radice di questa difficoltà di prendere in considerazione e di alimentare la propria posizione previdenziale, tuttavia se non si riporta al centro del dibattito la questione della previdenza complementare si finisce per depotenziare la capacità del sistema previdenziale nel suo complesso di risolvere le difficoltà previdenziali delle future generazioni.